Partenze

Il naufragio - William Turner

Le idee, nella nostra piccola redazione, rimbalzano disordinatamente. Siamo ancora nella fase embrionale di questo nuovo, felice esperimento, e al caleidoscopio che è Intersezione si aggiungono sempre nuove sfumature di colore. Siamo tutti d'accordo sul fatto che questo giornale sia molte cose: un punto d'arrivo, sicuramente, ma anche — speriamo — l'inizio di un lungo viaggio. Dunque: partenze, in più sensi di uno.

Alcuni di noi sono all'ultimo anno di permanenza in città. Per tre e più anni, Trieste ci ha accompagnati giorno e notte, è stato l’orizzonte entro cui ci siamo mossi nella prima esperienza lontano da casa. È molto divertente, col senno di poi, dissezionare le emozioni provate prima dell’arrivo in città: un’insolita ridda di paura, curiosità, eccitazione, irritabilità, ansia, speranza, trepidazione. Abbiamo sperimentato l’ingenua ma profonda certezza che le cose sarebbero cambiate radicalmente, e per il meglio: avremmo trovato l’amore della nostra vita, avremmo stretto amicizie indissolubili, saremmo stati completamente e finalmente soddisfatti della nostra posizione nel mondo. Abbiamo anche sperimentato, con una certa timida inquietudine, il dubbio di stare semplicemente cambiando cornice al nostro scoramento. Una volta partiti, una volta arrivati, tutto questo castello possibilistico ha iniziato lentamente a crollare su sé stesso, mentre la realtà di Trieste si delineava. I “fuori sede” più fortunati e decisi imparano presto che non conviene opporre al nuovo una parete impenetrabile; piuttosto, lo si deve accogliere: prudentemente, educatamente, ma sempre essendo disposti alla massima apertura, perché è proprio la città — seconda solo alle personeche la animano — ad essere la massima protagonista della parabola universitaria.

Mi si perdoni il cliché, ma di una città ci si può anche innamorare — quasi quanto ci si può innamorare delle persone che la animano. Il passare dei giorni altera la chimica del nostro cervello, e col tempo la routine da studenti che ci incasella diventa più facile da sopportare, poi rassicurante, poi pronta a essere spezzata. Piano piano iniziano gli esperimenti, e si impara a trattare la città con tenerezza. Si impara a conoscerla, stringerla tra le dita, ascoltarla con attenzione, scorgerla nei passanti e nei loro angolini di vita. Si prova quello strano senso di padronanza e possesso, nuovo e familiare allo stesso tempo. Ci si allena a percorrere le strade della città vecchia e ad attraversare quel qualcosa che aleggia sempre sopra di esse, come una nebbia che sale. Si comincia a guardare con occhi sempre diversi i riflessi delle luci che sembrano colare sull’acqua come cera. Si torna tardi la notte camminando a dieci centimetri da terra. Farsi avvicinare, insomma. Permearsi tu di lei e lei di te, lasciarsi entrare vicendevolmente. Nel frattempo, sottotraccia, iniziano a comparire le prime crepe. Inevitabilmente entrerà anchela sozzura e il marcio, inevitabilmente ci si accorgerà che la cordialità e lo scambio sono stati rimpiazzati da diffidenza e circospezione. Nonostante non succeda niente di catastrofico sembra che il tempo, molto semplicemente, stia scadendo. Anche se la città conserva sempreil suo fascino ritroso, quando ci si scontra con insoddisfazioni in altri campi questa distanza diventa lacerante. Ciò che abbiamo assorbito sembra andare in putrefazione e ci insidia da dentro. Compare un dubbio: chi dice che il passato è stato felice sembra vittima di un’illusione. Solo nel presente si può sapere se si è felici sul serio, pienamente. Buttando lo sguardo indietro rimane solo la consapevolezza di aver perso qualcosa per sempre e di non poter più mettere a fuoco cosa esso sia. Come bisogna comportarsi quando la nostra casa ci viene sottratta da sotto i piedi? Perché permettiamo alla familiarità di diventare noia? Cosa si può fare, insomma, quando arriva la fatidica fase del disinnamoramento? Bisogna, banalmente, lasciare andare. Così come solo a fatica si può perdere una compagna di vita, chisceglie di completare i propri studi altrove sa di doversi lasciare alle spalle una mancanza difficile da colmare; si stupisce di quanto spaventi lo spettro della partenza.

Si tratta ora di capire se questo spettro abbia sostanza o se sia solo un’ombra che viene proiettata, paradossalmente, dall’anticipazione di un vuoto. Si tratta in realtà di decidere se lasciarsi spaventare o se scacciare il fantasma. Per la precisione: occorre avere fiducia nel fatto che questa volta non partiremo davvero verso l’ignoto. Proprio grazie al tempo speso a Trieste, questa nuova partenza sarà diversa, più difficile e più facile insieme. Più difficile, perché ci sembrerà di rinnegare una parte di noi stessi, di minare le fondamenta che per tre anni ci hanno tenuto in piedi. Più facile, perché questa volta saremo più equipaggiati e viaggeremo piegati sotto il peso di un bagaglio più ingombrante, ma pieno di cose di valore. “Che cosa mi ha lasciato Trieste?” è un interrogativo a cui ogni studente può e deve rispondere da solo; ciò che mi sembra invece un dovere di chiunque è quello di non cadere nella tentazione di tagliare tutti i ponti. Meglio tornare spesso alla città e a quello che ha regalato, anche solo col pensiero, anche solo di sfuggita, perché questo vuol dire accettare con gratitudine quello che c’è di suo in noi. Intervistato riguardo al suo Pensavo fosse amore…invece era un calesse, Massimo Troisi disse: “Quando si smette di amare, ci vuole lo stesso impegno e la stessa intensità dell'inizio, far sentire alla persona lasciata tutto il bene che c'è stato: ci vuole amore per chiudere una storia”. Sarebbe bello rivolgere a Trieste lo stesso rispetto, per allontanarsi con un sorriso riconoscente e sapendo che abbiamo preso da lei molto più di quanto le abbiamo dato. E se è vero che ci vuole amore per chiudere una storia, penso sia altrettanto vero che, se l’amore c’è stato, per mille motivi diversi la storia non si potrà mai chiudere sul serio. Anche se spesso facciamo il nostro meglio per inaridirci completamente, rimarrà sempre in noi una piccola, grande pepita di affetto.


Si parla di partenze, quindi, ma almeno in due sensi: c'è chi se ne sta andando e chi sta facendo il primo passo. C’è chi se ne va, e c'è chi arriva e guarda questa città con lo stesso sguardo che anima noi — noi che siamo un poco più vecchi, un poco più avveduti. C'è chi volta le spalle a Trieste e chi invece ci sbatte contro la fronte per la prima volta… e parte, anch'egli, e inizia solo ora a correre.

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