La Cornice Dorata

La Nuova Ofelia è sola nella sua camera e, mentre è persa nella sua sofferenza, la sua unica compagnia rimane la desolazione color neon dello schermo di un cellulare. Non vuole scappare da quello che prova, poichè per lei l'agonia ha il volto di un angelo.
Ci chiediamo, dunque: perché le ragazze non solo non vogliono allontanarsi dal proprio dolore, ma lo ricercano attivamente?
Che cosa rende possibile questo fenomeno?
Il sipario viene alzato, i riflettori si accendono.

Foto dell’autrice

Bellissima e sofferente, incantevole nel suo tormento, la rovina della donna è osservata attraverso una cornice dorata.
Noi la scrutiamo da lontano e ne siamo affascinati: prima esaminiamo la lucentezza dei suoi capelli ed il contorno della bocca ansimante, e poi senza quasi accorgercene controlliamo il modo in cui sono aggrottate le sopracciglia e tentiamo di capire se la sua pelle è veramente liscia e rosea come sembra.
Non importa il suo nome, non importa la ragione della sua sofferenza, quella che si ha davanti continua ad essere una figura da cui è difficile distogliere il proprio sguardo.
Di colpo questo flusso di pensieri si interrompe e, mentre il senso di colpa inizia a nascere nel nostro petto, ci domandiamo: la stiamo osservando perché attraverso la lente del dolore la sua bellezza è ancora più abbagliante o è proprio questo che la rende tale?
“Le donne sono macchine costruite per soffrire” scriveva Picasso, ed anche se non ne siamo pienamente coscienti l’eco di queste parole continua a riecheggiare nelle nostre menti moderne.
Per secoli la sofferenza della donna è stata sua nemica e compagna, un elemento intrinseco non solo della sua rappresentazione, ma anche della sua stessa esistenza.
La donna è spezzata e agonizzante, ma è bellissima.
La donna è spezzata e agonizzante, quindi è bellissima.
È incontestabile come la bellezza continui a rimanere più che mai un ideale a cui la maggior parte delle donne aspira a raggiungere e, in una società patriarcale in cui il binarismo di genere vige sovrano, persino qualcosa di così intimo come il dolore è codificato in base a standard che vengono ritenuti prettamente “maschili” e ”femminili”.
Come il seme di una pianta velenosa la società patriarcale non dà solamente vita ad un sistema strutturale, ma ad un vero e proprio sistema di valori che impone le sue regole a tutti, premiando il controllo e l’ordine: il potere dominante appiattirà, semplificherà e modellerà preventivamente qualsiasi problematica riguardante razza, genere e classe, ed imporrà ad ognuno il proprio ruolo.
Anche per questo motivo l’oggettificazione del corpo della donna affonda le sue radici così in profondità nelle nostre menti, ed è considerata quasi come uno stato di esistenza perenne ed immutabile, un’imposizione divina.
La donna deve essere bella e di conseguenza deve esserlo anche il suo dolore, che viene idealizzato a un livello tale da rendere possibile una sua estetizzazione.
Anche l’agonia dovrà seguire dei canoni classici: volti di martiri straziate in cui il dolore è anche estasi, donne insanguinate ma ricoperte di tessuti preziosi, persino nella fede il dolore non solo è accettabile, ma è ben accetto, se gli si possono affibbiare degli standard estetici. L’occhio non la osserva ma la sviscera, le scava nella pelle e la lascia inerme davanti al suo voyeur e la prigione che la circonda inizia ad essere fatta della sua carne e del suo sangue, il suo corpo diventa anche la sua tomba.

È arduo inquadrare questo fenomeno poiché da sempre si è preferito osservare e giudicare le donne piuttosto che analizzarle, e lo è ancor più quando sono loro stesse a diventare per prime il soggetto delle proprie fantasie autodistruttive.
Un elemento discordante ma centrale in questo contesto riguarda qualcosa che va sia ben oltre l’imposizione di un ruolo, sia oltre lo sguardo della società patriarcale che ricerca la sofferenza femminile, se ne compiace e ne è attratta.
L’occhio onnipresente dell’uomo, che scruta e giudica e detta legge, si trova ormai all’interno della psiche stessa della donna che ora cerca attivamente l’estetizzazione del proprio dolore.
Margaret Atwood a proposito del “male gaze” nel suo romanzo “The Robber Bride” scrive: “Anche fingere di non soddisfare le fantasie degli uomini è una fantasia degli uomini: fingere di non essere vista, fingere di avere una vita tua, di poterti lavare i piedi e pettinarti inconsapevole dell'onnipresente osservatore che sbircia attraverso il buco della serratura, che sbircia attraverso il buco della serratura nella tua testa, se non da nessun’altra parte. Sei una donna con dentro un uomo che guarda una donna. Tu sei il voyeur di te stessa.”

La donna spezzata è una ragazza triste ma bellissima che fissa il vuoto, il suo dolore è splendido e le dà ragione di esistere.
Sorge dunque spontaneo chiedersi da cosa è alimentato un tale fenomeno nella società moderna: perché le giovani ricercano così morbosamente quella che in molti casi può essere ritenuta l’estetica della propria sofferenza?
Per poterlo analizzare è fondamentale prendere prima in considerazione un elemento centrale e onnipresente nella nostra società, ovvero i social media.
Lo sviluppo della globalizzazione e la loro nascita hanno reso impossibile all’uomo fuggire dal suo nuovo status di eterno spettatore: in questo vortice di suoni ed immagini la ragazza non solo è travolta da input e stimoli ma continua a ricercarli continuamente ed in maniera quasi ossessiva, vede se stessa riflessa nello schermo, riesce a scorgere nei contenuti del web un dolore simile al suo ma abbellito e romanticizzato. I contenuti diventano delle superfici riflettenti, degli specchi: una voce fuori campo parla mentre una canzone senza copyright continua a suonare in loop, la protagonista è nella propria stanza e racconta della sua salute mentale mentre la sua sofferenza viene ridotta a metafore spicce e frasi ad effetto, “questa è la realtà” dice leggendo il copione.
L’artista fa diventare il dolore bello, trasforma la sofferenza in una performance, deve farlo poiché è questo il suo lavoro.
In questo caso romanticizzazione ed estetica della sofferenza devono per forza coesistere per poter essere vendute perchè è esattamente ciò che il mercato richiede: la depressione, il suicidio e i traumi devono essere dipinti in una maniera ritenuta accettabile, bella, per la piattaforma e per i suoi utenti.
La sofferenza si trasformerà in qualcosa di prezioso che si deve continuare a tenere stretto, diverrà un accessorio che le donne sceglieranno di portare con sé, e l’infinità offerta da internet si trasformerà in uno spazio virtualmente chiuso in cui la propria condizione di disagio verrà autoalimentata, idealizzata e romanticizzata.
La donna dunque riuscirà a dissociare dal proprio dolore e ad osservarlo dall’esterno come se lei stessa fosse la prima spettatrice della propria tragedia: la sua agonia diventerà un feticcio di se stessa, verrà resa bella e vendibile.
Anche per questa ragione gli algoritmi di Tik Tok e di Instagram sono uno strumento pericoloso, poiché le piattaforme li usano consapevolmente per rendere i propri contenuti semplici e fruibili, creando quindi delle casse di risonanza in cui alle giovani vengono proposti gli stessi contenuti, sempre più intensamente, in un ciclo senza fine.
La sofferente è bella perché il suo dolore è stato snaturato ed è diventato puro artificio, la sofferente è bella perchè è una donna bianca e cisgender nella sua grande cameretta, la sofferente è bella perchè è finzione.

La cornice dorata che abbellisce tutto ciò che è considerato “femminile” è anche la sua gabbia, e per poterne uscire bisognerà prima essere consapevoli della sua esistenza: ci si dovrà riavvicinare al proprio dolore.
Per fare questo bisognerà prima di tutto opporsi attivamente e coscientemente a ciò che è stato propinato alle donne fin dalla nascita, e di conseguenza bisognerà anche lottare contro tutta la propria esistenza nella società.
Occorrerà osservare l’occhio osservante nella nostra mente, spegnere il riflettore puntato sulle nostre ferite aperte.
Nel Mondo Migliore che noi riusciamo ad intravedere quando abbassiamo le palpebre le donne hanno ripreso controllo del proprio dolore, ne sono partecipi e coinvolte, possono essere brutte quando piangono, quando soffrono, quando esistono.
Nel Mondo Migliore che noi bramiamo, le donne possono essere di nuovo umane.

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