Cronache dalla mota

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Sto ripartendo, sono stata solo 3 giorni, sono più le cose che lascio rispetto a quelle che mi ero portata solo 72 ore fa: degli stivali chantilly, un giubbotto antivento, due paia di guanti e un tira-acqua- che non ho ancora capito se sia veramente il nome tecnico di quello strumento che prima di ora avevo visto solo nelle piscine comunali- che è fondamentalmente un rastrello con, alla base, un pezzo di gomma liscia ed impermeabile per spostare l’acqua. Non lo possedevo e mai avrei pensato che in un momento della mia vita avrei avuto la necessità di comprarlo, ma il fatto è proprio che di tutti questi oggetti non ne ho mai avuto veramente il bisogno. Li ho lasciati in una città che ora invece parla solo con un lessico legato a tutto ciò che può servire per pulire il fango, o per conviverci: vanghe, pale, secchi, generatori, stivali, tira acqua, pompe idrovore, torce, idropulitrici. Se svincolate dal contesto, queste parole richiamano uno scenario semi-fantascientifico di una narrazione post apocalittica in cui gli alieni assediano città senza gas, luce, acqua, isolate e senza viveri, con dispersi, morti e tanta paura. Per ora nessun alieno, ma per il resto la narrazione utilizzata per un racconto surreale, purtroppo, è diventata descrizione reale di un fenomeno improvviso: l’esondazione di tutti i torrenti in città, un metro e mezzo di acqua nelle case, il rischio idrogeologico e poi le frane, quello che Amitav Gosh descriverebbe come un evento biografico con cui far iniziare un buon racconto, ma che la maggior parte dei lettori difficilmente riuscirebbe ad immaginare come evento realmente accaduto, e quindi narrativamente fallace. E anche se penso che dovremmo seriamente cominciare a entrare nell’ottica che una letteratura che parla di cataclismi legati al cambiamento climatico non è così lontana dal reale come crediamo, vivere la realtà di Prato in questi giorni è stato come vivere in una bolla lontana anni luce dalla vita normale. Innanzitutto, il fango entra ovunque, e non nel senso che s’attacca a tutto, anche dopo la doccia, anche sui vestiti puliti del giorno dopo, sulle scarpe, sui giubbotti, ma anche nei dialoghi: “buona questa zucca, come l’hai cucinata?” “pensavo che se dobbiamo andare a Vaiano a spalare ci serve una torcia”, “com’è andata oggi a scuola?” “Io non so come funzioni una pompa idrovora e tu?” e non è strano, è semplicemente che l’alluvione di giovedì è diventato un pensiero laterale nella mente di ognuno, che ogni tanto viene a galla e ci distoglie da una situazione individuale per riportarci in un unico grande discorso collettivo al quale partecipano conosciuti e sconosciuti, sia verbalmente, sia con i gesti, e che penso sia conseguenza di un tentativo di sentirsi parte di una grande comunità, per fare rete, per non sentirsi soli in questa melma.

Ed infatti è così: tramite dei punti di smistamento in città o tramite gruppi whatsapp che indicano le zone e il materiale specifico da portare, i singoli volontari si organizzano in piccoli gruppi per raggiungere garage, case, campi, chiese, biblioteche, dalle otto di mattina fino alle cinque di pomeriggio, perché poi scende il sole e, nel fango, l’umidità e il freddo diventano insopportabili. In generale, nonostante la precaria fragilità di queste strutture- e soprattutto delle persone ad esse legate- e l’intimità che si crea nel voler dare una mano nel senso di voler prendersi cura di uno spazio appartenente a qualcun altro, in questi giorni, più che in delle case abitate, mi è sembrato di entrare in delle caverne sotterranee, fredde, vuote, riempite di fango e dei segni lasciati dall’acqua: sui muri si vede il livello a cui è arrivato il fiume, dentro i termosifoni, sul lampadario, in mezzo tra persiane e finestre rimangono i rametti incastrati, testimoni di una violenza latente, come una ferita ancora aperta.

Le ore passano lente, il lavoro invece procede rapidamente: si parla poco, nel silenzio il principale suono che arriva è quello dell’acciaio delle pale che sbatte scomposto sulle piastrelle, sulle carriole, contro altre pale. I vestiti si sporcano in fretta, ci si riconosce soprattutto con gli occhi.

Solo la prima sera, quando sono andata fuori città in una cartiera vicino Vaiano, in via della cartaia, ho conosciuto Louise.


Sono entrata in quella che avrebbe dovuto essere casa sua, la ha comprata 2 anni fa ed è proprio accanto alla cartiera, in una zona incuneata dove il fiume non solo è straripato, ma è proprio passato sopra le case della conca, inclusa la sua (dove, comunque, è andata meglio rispetto alle zone della piana in cui il fiume ha cambiato il suo corso, e dove prima c’erano delle strade, ora c’è almeno un metro di acqua che scorre tranquilla tra le vie delle case). Era tardi, ed era già freddo, quando con Louise ci siamo permesse una intima conversazione che non riguardasse l’alluvione, mentre cominciavamo a liberare una stanza dai rami.

Trovo veramente assurdo il modo in cui, a volte, da esseri umani, riusciamo a stabilire un’empatia particolare con dei perfetti sconosciuti, piuttosto che con amici o con persone fidate. Date le circostanze, Louise ed io non avevamo molto da offrire, né una gran voglia di fingere, e chissà se in un qualsiasi altro contesto avrei apprezzato un dialogo tanto semplice, tanto sincero, se avrei avuto modo di parlare con Louise della sua vita, se avrei banalmente trovato Louise. Ciò di cui sono certa è che la mia esperienza, la mia vita, sarebbero state molto più povere di significato senza di lei. Abbiamo parlato di Cuba, dove lei è nata, di Trieste, dove io sono andata, dei racconti di una vita che includono scelte, amori, paure, valori, e dopo un’ora circa, alle sei e mezzo, ha sentenziato che per oggi basta, che se tornate domani e non ci sono, “fate come a casa vostra”. Il giorno dopo sono tornata e Louise c’era, con dei vestiti nuovi e lo stesso sorriso, che era l’espressione più sincera di chi non vedeva la perdita, piuttosto l’aver trovato decine di persone da tutta Italia, vestite come i nani da giardino, con del materiale recuperato da qualche improbabile negozio di strumenti da giardinaggio, presenti sia nel senso temporale che fisico del termine, a casa sua (o quella che dovrebbe essere) per il semplice scopo di volerla pulire: lo stesso giorno ho conosciuto Sara, che a Pisa lavora in una impresa privata di pulizie, non ho mai visto persona più felice nel pulire un bagno infangato fino al soffitto, ché è molto più soddisfacente che pulire i cessi poco sporchi degli appartamenti eleganti dei Pisani arricchiti, ed effettivamente è vero, nei rari momenti in cui passa l’angoscia, è quasi divertente.

Alla fine del secondo giorno le case vicino alla cartiera di Vaiano sono ritornate ad avere dei pavimenti e dei muri, puliti, svuotate di tutto il resto, ma col sole che finalmente le attraversava. Ed allora, quando nella felicità condivisa nel vedere un piccolo, rapido arcobaleno creato da un’idropulitrice, sono andata a chiamare Louise per condividere quell’attimo di stupore, Louise stessa non si è smentita della profonda fiducia che le avevo dato la sera prima, dopo l’intimità della notte, e, emozionata, ha deciso di raccontarmi, da fedele credente, il passo della Genesi sull’arca di Noè, quando, dopo il diluvio universale, sulle Terre asciutte comparve un arcobaleno. Mi dice che fu per un’alleanza.

Io purtroppo non mi ritengo una fedele credente, non come vorrei, non come lei di sicuro. Ritengo tuttavia affascinante l’effetto mitologico-narrativo che le scritture religiose lasciano nei suoi lettori. E poi, dopo giorni di fango e miseria, lo spazio per il racconto, per il mito, per narrazioni lontane dal presente catastematico, forse solo drammatico, del fango, si era ridotto a tal punto che immaginare Noè sulla barca durante il diluvio universale mi appariva come una visione fantastica, un sogno ad occhi aperti. E poi, il racconto del diluvio universale dopo un’alluvione giuro che acquisisce tutto un altro significato. Del tipo, banalmente: allora c’è qualcosa dopo la pioggia! Che forse è proprio quello che un racconto biblico ha il compito di fare: dare speranza.

Non lo so però se questo racconto finisce bene o male, e non lo so se quello della Genesi finisse bene o male, sempre che si possa accettare la fine di un racconto utilizzando aggettivi diametralmente opposti come “bene” e “male”, fatto sta che in entrambi arriva un preciso momento in cui compare un arcobaleno, in uno fu per un’alleanza, dice, resta da capire nell’altro caso per cosa stia.

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