Fuoricorso: Ragazzi nel mezzo

Nel vasto panorama accademico, i fuoricorso rappresentano una realtà tangibile, spesso celata nell'ombra della normalità universitaria. Con l'obiettivo di dissipare pregiudizi e sfatare percezioni negative, ho scelto di impiegare lo spazio offerto da Intersezione per esplorare questa dimensione.

Durante la stesura dell'articolo, il progetto che avevo in mente è cambiato: sono stata influenzata dalla varietà e dalla complessità emerse dalle interviste condotte. Riflettendo sull'importanza di approfondire questi temi, la redazione ha deciso di inaugurare con "Fuoricorso: Ragazzi nel mezzo" una serie di articoli dedicati, consapevoli dell’impossibilità di esaurire appieno la ricchezza di questo argomento in un solo articolo.


(I nomi presenti sono nomi di fantasia per motivi di privacy)

Termine coniato nel non si sa quando, descrive un fenomeno intrecciato nelle radici stesse del sistema universitario italiano: consiste nel conseguire la laurea oltre la durata prevista del corso. Si tratta di un fenomeno complesso e ricco di sfaccettature, seppure nella sua forma abbia soltanto un triste significato: in ritardo.

Data la parola, fuoricorso ha un'accezione negativa. L’ha spiegato senza mezze misure l’ex Viceministro del Lavoro e delle Politiche sociali Martone, che - nella sua prima uscita pubblica, nel 2012 -, dichiarò: “Dobbiamo iniziare a far passare messaggi culturali nuovi, dobbiamo dire ai nostri giovani che se non sei ancora laureato a 28 anni, sei uno sfigato”. Parole del genere descrivono più chi le dice che le persone a cui sono rivolte. Essendo io stessa fuoricorso, mi permetto di spiegarvi come e perché si diventa fuoricorso.


Nella realtà universitaria italiana, i fuoricorso ci sono sempre stati: rappresentavano una percentuale pari al 40% degli studenti iscritti, descrivendo una tendenza in aumento sino alla riforma del ministro Zecchino. Infatti, secondo lo studio di AlmaLaurea del 2020, con l’inserimento della riforma Berlinguer del 3+2, la percentuale dei fuoricorso in soli cinque anni si abbassò del 20%.


L’età media in cui si consegue la laurea di primo livello è scesa sotto i 26 anni dal 2010 al 2020: nello studio si prendono in considerazione il ritardo all’iscrizione che si riduce di 0,6 anni, una durata dei corsi pressoché costante (dai 3,8 anni del 2010 ai 3,9 del 2020), ma si sottolinea un aumento di ritardo alla laurea. In parole povere, ci si iscrive prima del solito all’università, la durata del percorso universitario rimane di 4 anni in media mentre è in aumento il ritardo di conseguimento alla laurea, quindi il numero di fuoricorso.


Sempre nello stesso studio di Almalaurea, è riportato che, nel 2020, almeno il 30% degli studenti universitari iscritti presso un ateneo italiano è fuoricorso di 1 o 2 anni, il 10-15% di 3 anni o più. I corsi di laurea che contano più fuoricorso tra i loro iscritti sono architettura e ingegneria edile, seguiti da studi umanistici e scienze giuridiche; al contrario, tra gli studenti più "puntuali" figurano quelli iscritti a scienze e tecniche psicologiche e materie medico-sanitarie e farmaceutiche.


Il fattore che più ha inciso sull’accumulo del ritardo negli studi è lo svolgimento di un’attività lavorativa abbinata alla frequenza di un corso universitario. I laureati che concludono il percorso universitario senza aver svolto alcuna attività lavorativa impiegano, in media, il 27% in più rispetto alla durata normale del corso; chi lavora part-time il 41%, mentre chi ha un occupazione full time impiega il doppio della durata normale.


Essere fuoricorso è una sensazione scomoda. Spesso non è una decisione consapevole di rimandare qualcosa, ma un susseguirsi di situazioni che portano a farti trovare nel mezzo, né dentro né fuori. Oltre alle scelte personali, intervengono anche dinamiche ambientali e sociali: queste ultime hanno un alto impatto sull'andamento degli studi e sul loro eventuale ritardo, pur non essendo necessariamente controllabili. Una pandemia, un trauma, una malattia, un insuccesso, una perdita, una fobia, il lavoro… i motivi sono tanti. Mi sono guardata attorno e ho cercato i motivi di chi come me si è ritrovato qui fuori, nel mezzo.


Martina (ndf) mi spiegò che quando iniziò a lavorare durante il secondo anno di studi, comprese quanto fosse difficile studiare e lavorare insieme: non era più scontato passare gli esami con un bel voto. Quindi spostò le sue attenzioni verso il lavoro, che a differenza degli esami, ripagava di più: “La delusione di me stessa nel non riuscire più come prima mi ha allontanata dai libri. Ho iniziato a pensare che ero solo brava a lavorare.”


L’argomento del lavoro è delicato: c'è chi l’università se la deve pagare, non avendo genitori disposti a pagarla o con le possibilità per farlo. Molti studenti fuoricorso si ritrovano a doversi mantenere per aiutare i genitori, laddove togliersi dalle loro spalle è significativo in alcune situazioni. “Se non avessi lavorato, durante il lockdown, non sarei riuscito sopravvivere. La cassa integrazione mi è entrata a fine quarantena, fortuna avevo messo soldi da parte. Il locale per cui lavoravo chiuse i battenti, trovare un locale che assumesse in zona rossa o arancione era difficile. Pensavo a come procurarmi il pane che a fare esami, sennò dovevo dire addio all’appartamento a Trieste e in generale all’università". L’esperienza di Luca è simile a quella di molti ragazzi, post Covid-19 se non prima, hanno dovuto rimboccarsi le maniche.


Lo studio della Udu-Federconsumi uscito nelle scorse settimane dimostra come, in due anni, il costo medio annuo per una giovane matricola sia aumentato di 5 mila euro. I numeri di spesa per uno studente "fuorisede" si aggirano tra i 18 mila euro annui. È vero che la situazione economica nazionale non è mai stata eccellente, ma ora più che mai molte più famiglie si ritrovano a chiedere ai figli di lavorare per poter andar avanti.


Un altro aspetto da considerare nel ritardo alla laurea, è l'imporsi di sfornare determinati voti.

Il sistema scolastico italiano è basato sul valutare una prova con un numero, numero che però non sempre rappresentava la conoscenza dell’argomento. È capitato, non a tutti, di esser valutati con un voto e di continuare a prendere il medesimo in ogni sua prova. A prescindere dall’impegno o dall’argomento. È da una tenera età che veniamo associati a un numero ed è naturale e sbagliato pensare di valere quanto esso. Quindi la gara al bel voto si fa sentire quando inizi un nuovo percorso, specie quando sai che puoi presentarti a qualsiasi appello d'esame e che puoi rifiutare il voto ricevuto. Questo dà, inevitabilmente, una sensazione di potere e controllo rispetto al proprio approccio allo studio e alla didattica. Finalmente non bisogna necessariamente stare al passo degli altri, non esiste un percorso uguale per tutti: finalmente, ci si sente di poter scrivere da soli la propria storia.


Olga (ndf) è fuoricorso di due anni perché non si presentava agli appelli. La paura di non superare l’esame era così forte che la bloccò dal presentarsi. “Studiavo molto ma il giorno dell’appello non riuscivo ad uscire di casa. Posticipavo a quello dopo, sperando che il tempo mi facesse sentire più sicura, ma la sicurezza dentro di me non c’era mai.” Olga era abituata a prendere determinati voti, sotto il ventisette non "scendeva" mai. Però durante la quarantena la mancanza di motivazione compromise il suo studio, invece di lavorare su sé stessa per ritrovarla, si fece abbattere dalla sua stessa paura: lasciò che un esame andato male definisse lei come persona, si sentì un fallimento. Essendo la sua fiducia andata scemando, l’idea di potercela fare si sgretolò in silenzio.


Fin da piccola, Lucia (ndf) sentiva i suoi genitori dirle che sarebbe andata all’università, come una delle tante tappe della vita; però con gli anni aveva iniziato a vedere l’università come traguardo di libertà. Non potendo uscire spesso, non ebbe molto l’occasione di poter fare esperienze con i ragazzi della sua età. “Mi sentivo tagliata fuori. Non vedevo l’ora di avere un mio posto, in una città nuova per vivermi quella tanto attesa esperienza universitaria”.

Lucia non vedeva l’ora di capire chi fosse e cosa le piacesse. Infatti, per molti ragazzi iniziare all’università significa fare le valigie e andare fuori casa, cominciare a vivere autonomamente in un contesto diverso da quello in cui sei cresciuto. Questo ti porta a rivedere l’identità che hai e che fino a quel momento hai sviluppato.


Anche per Lisa (ndf) l’università era un modo per scappare di casa: “Non la consideravo come una possibilità per il mio futuro, la vedevo come zona di comfort, per poter avere qualcosa che mi coprisse, tipo un’etichetta”. Semplicemente così, scartando i corsi che meno avevano a che fare con lei e scegliendo quello che più le interessava.

“Non ho fatto una scuola adatta per il corso universitario che avevo scelto, dopo la prima lezione capii che non sarei mai riuscita a tenere il passo con gli altri. Mi sono sentita subito un pesce fuor d’acqua perché non avevo la concezione di cosa stavo andando a fare.”

Non sempre la scelta della scuola superiore e del corso universitario combaciano, quando è così bisogna provvedere alle lacune presenti. Una possibile soluzione è quella di studiare con qualcuno, ma a questo Lisa ci pensò subito. Però è proprio quando non ebbe più nessuno con cui studiare che iniziò a rallentare. “Ho iniziato ad arrangiarmi e a stare da sola.”


Troviamo analoga anche l’esperienza di Mattia (ndf) “Perdere il gruppo di studio, nonché di amici, non ha aiutato. Per carità, sto meglio senza di loro ora ma all’epoca mi aiutavano a tenere il passo.” Spesso gli “screzi” personali vengono sottovalutati, hanno un peso psicologico ed emotivo che non è da ignorare, dato lo stress che può provocare. C’è chi ha bisogno di una rete di persone per poter stare in un ambiente come l’università, questi individui sono più fragili quando non godono più di questo supporto. “Ho danneggiato me nel non presentarmi più a lezione, ma era troppo pesante psicologicamente affrontarli.”


Chiara (ndf) si considera una ragazza gioviale e molto amichevole. Per lei, infatti, la quarantena è stata destabilizzante: soffriva troppo per la chiusura e la mancanza di contatti. Ovviamente c’è chi si è ritrovato egregiamente nella quiete del lockdown, ma tra molti morti, nessuna cura, nessuna risposta certa, non era scontato mantenere la concentrazione. “Alcuni miei colleghi ne hanno approfittato per fare esami uno dopo l’altro, io non riuscivo a concentrarmi. Il silenzio assordante in casa mi faceva sentire sola. Quando hanno riaperto tutto, desideravo solo riconnettermi con qualcuno. Ho dato solo un esame ma è stata l’estate più euforica che abbia mai vissuto, sentivi che la gente aveva solo voglia di ritornare ad avere la vita di prima.”


Per Giulia (ndf) al contrario fu quello che successe fuori il contesto universitario a bloccarla. Purtroppo, non ebbe la forza di parlare all’epoca e questo la limitò tantissimo per molto tempo. Innalzò dei muri attorno a sé senza fare entrare nessuno, perché nessuno la poteva capire. “Quando non sai chi sei, sei fragile, se sei fragile sei una vittima perfetta. Non riuscivo più ad andare in quella zona, sapevo che lavora lì e non volevo più incontrare i suoi occhi. Sapevo che voleva dire non andare più a lezione ma gli attacchi di panico che mi procurava il pensiero di rivederlo erano così forti che dal letto non riuscivo ad alzarmi.” Ammise di essere riuscita ad alzarsi solo quando da sola riuscii a capire che la vita le stava scivolando dalle mani, non volendo che qualcosa di cui non era responsabile la limitasse così tanto, si mise a lavorare su quello che aveva perso per riprenderselo.


Per Tommaso (ndf) invece, il finire fuori corso, non è dovuto a difficoltà esterne o personali. Bensì alla tranquilla accettazione di non avere idea di cosa fare dopo. “Sono i miei genitori che mi mettono pressione sul finire il prima possibile ma non ho modo di andare più veloce. Tutta la pressione che provo mi mette ancora più difficoltà, più aspettative, e dovrei poi correre per non sapere neanche che lavoro fare dopo? Insomma, cos’è tutta questa fretta?”


Touché. Ho visto tanti sguardi smarriti e confusi il giorno dopo la laurea. Alcuni sono travolti da emozioni positive, altri invece si sentono smarriti e privi di idee sul cosa fare. Quindi perché correre se non sai che strada prendere? Si chiese Tommaso. Forse questa voglia di finire al più presto e avere in mano quel pezzo di carta da inquadrare al muro la prendiamo dalla società che ci circonda. Siamo cresciuti con l’idea che quel percorso, quando lo finisci, un po’ il lavoro te lo garantisce.


Spesso i nostri genitori ci incitano a presentarci sempre agli appelli, a non rifiutare mai il voto, a studiare e non perdere di vista l’obiettivo. Vogliono solo assicurarsi che anche noi un giorno saremo sistemati. Bisogna però contestualizzare la visione con cui ci hanno cresciuti nella realtà attuale. Non mancava lavoro, c’erano opportunità ovunque proprio per la crescita industriale che l’Italia stava attraversando. La laurea per loro rappresentava quello step in più per avere un lavoro sicuro e ben retribuito. Ahimè, non viviamo più in quelle condizioni.


Per Tobia il diventare fuori corso l’ha buttato completamente fuori pista. Stava già passando un periodo complicato, reso più difficile dalla quarantena. Chiuso in casa, evitò qualsiasi cosa che alludesse l’università: “Mi sentivo un fallimento, parlare di esami mi procurava attacchi di panico, l’angoscia poi non se ne andava più via.” Come purtroppo altri ragazzi, Tobia incominciò a sconnettersi dal mondo esterno. “Non ero riuscito a stare al passo e piano piano vidi i miei amici lasciare la città. Il pensiero di ricominciare con gente più piccola mi scoraggiava. Non perché mi reputavo superiore, ma perché il legame era con gli altri, era forte perché avevamo scoperto le cose insieme.” È vero: non rivedere più le facce a cui eri abituato ti fa sentire un estraneo, come se a quel posto non appartenessi più. Sentirsi studente e parte integrante dell’università è fondamentale, perché il contrario porterebbe al completo abbandono degli studi. Cosa ci faccio qua? È la domanda che non ti lascia mai solo.


“Avevo l’impressione che mi guardassero come se fossi l’intruso, ovunque mi sentivo un peso, mangiavo in bagno per non incrociare sguardi, ero solo e i gruppi mi intimorivano. Per diversi mesi mettere piede in università è stato difficile.” Ogni problema, non curato, finisce per ingrandirsi e rendere più difficile la vita di chi ne soffre. Le paure di Tobia si sono ingrandite diventando i pilastri su cui poggiava la sua persona, la sensazione di intruso era diventata parte di sé, si era auto-convinto che non aveva più a che fare con la sfera universitaria. Non parlandone, nessuno poi l’aveva convinto del contrario. “Non credo di esserne completamente uscito, sono ricaduto più volte. Non potevo non fumare prima di uscire di casa sennò l’ansia mi divorava. Non va bene lo so ma o così o mi ammazzavo. Ho visto più volte il buio, non so come ho fatto a salvarmi. Giorno dopo giorno andando a studiare col mio coinquilino, diventò più facile rimettermi a studiare. Avevo imparato a farlo per me e per nessun altro.” Ed è forse questo la cosa più importante.


I dati e le testimonianze riportati dimostrano che molti fattori contribuiscono al diventare fuori-corso. Spesso un motivo si aggiunge ad un altro. È una situazione che, date le politiche attuali, difficilmente andrà attenuandosi in tempi brevi. Anzi, i dati mostrano tutt’altro. Chi è fuoricorso si sente un fallimento, come se la situazione se la fosse creata da sé. La pressione psicologica ed economica che ci mettiamo e che ci mettono però non rende facile uscirne. La possibilità di dialogo aperto per condividere le proprie esperienze è fondamentale affinché nessuno rimanga bloccato da solo, far sentire gli altri capiti condividendo le nostre esperienze aiutano a non sentirsi così esclusi o reputarsi dei “casi persi”. Spesso sapere che non sei il solo a provare determinate emozioni aiuta perché ti fa sentire più umano e meno imperfetto. Inizi a capire che non sei da buttare, che sei come tutti gli altri, un work in progress. Il percorso è personale, ma allo stesso tempo non ti definisce. La voglia di riprovarci riappare quando comprendi che non ti etichetta la caduta in sé ma il come ti risollevi. Non siamo “sfigati” e non siamo pigri. Non siamo numeri, non siamo un pezzo di carta e non siamo tutti uguali. Siamo bloccati nel mezzo, pronti a cogliere un appiglio e a trovare la propria strada.




Fonti:

https://www.ilfattoquotidiano.it/2012/01/24/anni-laureato-sfigato-parola-viceministro-michel-martone/186094/

https://www.almalaurea.it/sites/default/files/2022-05/almalaurea_profilo_rapporto2020_0.pdf

https://www.federconsumatori.it/caro-studi-universitari-al-verde-presentato-oggi-il-report-sul-costo-degli-studi-alluniversita/

Immagine: Kim Jungyoun

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