Il quieto fuoco (o, La Solitudine di un Fuorisede)  

Una finestra illuminata, una stanza buia, un mondo assordante.  
Uno studente pensa alla propria vita e decide di alzarsi, cospargere la propria camera di benzina, darsi fuoco.

La nube roja - David de las Heras

La prima sera passata nella città di Trieste l’ho spesa da sola nella mia spaziosa camera in Via Fabio Severo, sentendomi persa e confusa, un piccolo satellite abbandonato all’infinità dello spazio. Non sapevo esattamente perché avessi deciso di iniziare a studiare nella Città al Confine e fino a pochi giorni prima tutto mi era sembrato un gioco, una battuta goliardica in cui ero io stessa a sbeffeggiare il mio futuro. Eppure, quella notte, la mia esistenza di colpo si era riempita di spazi vuoti, piccole parentesi che si trasformavano in buchi neri pronti ad inghiottire qualsiasi cosa mi stesse attorno.  
Perché mi sentivo fluttuare nel vuoto, barcollare nel buio, affogare, bruciare viva?
La verità è che dopo anni era rinata in me la consapevolezza che avrei dovuto confrontarmi di nuovo con quella sensazione, quel dolore così terrificante e affascinante che mi aveva invaso il petto e inumidito gli occhi.
Questa realizzazione mi aveva sia spaventato che riempito di speranza, e tra le mie mani schiuse erano apparse un numero smisurato di possibilità, come piccoli chicchi di sabbia: ognuno era microscopico e inconoscibile, ognuno era un mondo a sé che avrei potuto esplorare.  
Nel buio mi ero fatta forza e, nonostante la paura, avevo raccolto la mia volontà di lepre e mi ero preparata a scattare per rincorrere le opportunità che mi si sarebbero parate davanti, pensavo ai futuri carpe diem della mia vita. Il mio periodo di crisalide era appena iniziato ma la mia metamorfosi sembrava ancora lontana: la solitudine mi aveva abbracciato come un pupario, aveva cominciato a farmi diventare una creatura diversa, più forte, più consapevole, meno bambina, ne ero certa.  
Dovevo esserlo.
Quando fuori dalla finestra il mondo continua a clamoreggiare ma il silenzio nel proprio petto diventa micidiale, è in quell’istante che si fa esperienza di quel fenomeno così particolare che è la Solitudine del Fuorisede.   

È una sensazione assai strana la solitudine: sembra che non stia occupando spazio finché non si inizia a sentire nel naso l’odore acre di cenere, e ci si trova improvvisamente in una stanza piena di fumo, lambiti dalle fiamme.  
È qualcosa di ambivalente, o almeno, lo è sempre stata per me.  
Se la nostalgia è un coltello la solitudine sarà prima gelo, paralizzerà e intorpidirà, per poi trasformarsi in una fiamma che avvolgerà cuore e mente. Eppure, quello che rende così particolare la Solitudine del Fuorisede è anche ciò che ne permette l’esistenza: l’acquisizione di una nuova indipendenza (la maggior parte delle volte, se si è giovani, o se si ha deciso di cambiare improvvisamente la propria vita) e dunque la scomparsa di limiti, l’illusione di essere in controllo di ciò che prima sembrava incontrollabile.  
Sono sola, posso fare tutto ciò che desidero, sono sola, nessuno può decidere per me, sono sola, e questa sensazione è spaventosa.  
Molti la credono facilmente riconoscibile, o come un moto dell’animo che si palesa in determinati momenti della propria esistenza, eppure la solitudine non è semplicemente l’esser soli: spesso è la sensazione acida che si sente nella gola quando si è in compagnia ma ai margini di un gruppo, e mentre le risate si alzano verso il cielo, il proprio cuore sprofonda sempre di più verso la terra. È qualcosa di viscerale che si sente nella bocca dello stomaco, è un disagio, a volte può essere un dolore, ed è ciò che ci permette di essere noi stessi.  
Dunque, si può stilare una lista di “cose che possono spegnere il fuoco della solitudine”? Come si può trovare rifugio da questo disagio? 
Scappare non potrà e non dovrà essere fatto.  
“Dimmi il tuo rapporto con il dolore e ti dirò chi sei” scriveva Ernst Jünger, ed io riporto le sue parole aggiungendo: “indaga il tuo rapporto con il dolore per trovare te stesso”.  

La solitudine è spaventosa e non deve essere vista come un elemento positivo, ma uno stato negativo che non annichilisce: somiglia ad un fuoco che riscalda e dilania, ad un’arma  che può essere sia brandita, sia usata per scavare nella carne.  
Dico, dunque: se questo fuoco quieto che sentiamo nelle membra brucia e non può essere estinto, permettiamogli di riscaldarci nel gelo della notte. La corsa disperata verso il riempimento degli spazi vuoti della nostra vita - parentesi apparentemente detestabili - è un’opportunità mancata per fermarsi e analizzare un disagio utile che arricchisce, e che permette di svelare parti di noi stessi che pensavamo fossero perdute per sempre. Un giovane studente ha infinite possibilità per svagarsi e tentare di non riconoscere quell’’onnipresente fuoco, ma non ne ha altrettante per poter pensare a sé e alla propria salute mentale. Rifuggire dalla solitudine è normale ed umano, ma creare uno spazio per sé nel proprio dolore a volte è ciò che permette la guarigione, poiché la solitudine è anche cura. Questo sentimento paradossale è un aspetto incancellabile della nostra vita, ed è un’occasione per essere gentili con noi stessi: non può essere un dolore stagnante, non ci si può abbandonare alle fiamme, ma è un moto dell’anima che ci spinge verso l’esterno e ci permette di analizzare il nostro rapporto con gli altri. Quando questo disagio si trasforma in un dolore che impazza ed anche il nostro io diventa assordante, è in quel momento che bisognerà cercare aiuto. Non ci si potrà lasciare affogare nella solitudine, ed analizzare il proprio dolore - nei migliori dei casi - permetterà di farci realizzare che quella fiamma solitaria si è trasformata in un incendio che ha bisogno di essere estinto.  
Avviciniamoci al fuoco quieto della nostra lontananza dal mondo e lasciamo che il suo calore ci salvi, ma non lanciamoci tra le fiamme. 

Proprio per questo motivo Trieste ha sempre avuto per me due volti: la Trieste delle risate, splendente nella sua pioggia e nel suo gelo (ricordo i giorni in cui osservavo le gocce illuminate dai lampioni feràl di Piazza Unità, e ne rimanevo estasiata) e la Trieste della mia solitudine, accarezzata da un sole freddo e circondata da un mare dai colori torbidi.  
Queste due realtà esistono e continueranno a farlo ancora a lungo, non sono che lo specchio di ciò che si trova nei miei occhi ogni giorno.  
Per ora vago lungo le strade di questa città come una sagoma infuocata, tento di non abbandonarmi alle fiamme, cerco di illuminare la via.  

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