Lungo il Confine
[ovvero dedicarsi alla “Creazione di un archivio di frontiera”, esperienza tratta da un laboratorio di antropologia culturale]
suoni pieni, essenziali
ci accompagnano, passo dopo passo
ruscelli di acqua cristallina scorrono
ovunque tappeti di foglie umide
goccioline indugiano nella caduta,
raccolte da fronde
sospese, silenziose
nebbia poggiata sul sentiero sterrato
mani attente
sguardi vigili
olfatto aperto
nell’aria si diffonde
l’anima abbrustolita dell’autunno
colori tenui
nuvole accasciate lungo la linea dell’orizzonte
membra colme di Soffrire,
Soffrire di chi passa per questi luoghi
durante la fredda notte,
ma anche nostro
che ora, qui, ne testimoniamo la profusione.
Un dolore conosciuto da questi alberi,
da questi sassolini,
da questa terra.
Ci si aiuta a vicenda.
Si lavora assieme
in questo stare diverso
in questo ascolto
in questa cura,
cura per ogni passo, per ogni traccia
per ogni segno di Vita che ha consumato questi sentieri
con il suo transitare nascosto.
Corpi in movimento
corpi in accampamento
corpi in tormento
corpi che non si mostrano
che sfuggono allo sguardo,
mortificati dalla loro stessa condizione.
vestiti, cappelli, zaini, spazzolini, scarpe,
guanti, sciarpe, cinture, pannolini, cuffie,
documenti, visti strappati, zenzero candito,
energy drink, salviettine igienizzanti, mutande
tracce di bambini, tracce di donne, di uomini, famiglie intere
fango, fango, fango
bagnato, freddo
pesante, rappreso
ovunque.
Quanto pesa
l’atto di curare questa ferita?
- sacco dopo sacco -
Quanto pesa
il lento rimarginare di questa zona d’ombra,
piena di giustizia non rivendicata
di dolore non visto,
di battaglie compiute in silenzio,
da soli, al freddo,
nell’ostilità della notte di terre che non si conoscono
in strade prive di testimoni
al termine delle quali,
non c’è nessuna calda dimora,
nessun abbraccio familiare ad attenderti.
Al termine delle quali,
non c’è nessuno
che si stia chiedendo
quando arriverai.
Venerdì 10 novembre 2023, Trieste
Queste sono le parole che ho scritto qualche giorno fa, presso l’imbocco del sentiero di Zgurenc, nel bosco di San Dorligo. Luogo situato fra Bagnoli e Socerb, fra Italia e Slovenia, di confine, meticcio, situato a pochi passi da uno stato “altro”, conosciuto nei dintorni come parte della riserva della Val Rosandra e come culla di una delle fonti d’ acqua più pura e fresca della zona. Come una sfinge che segretamente sonda l’animo di chi varca la soglia del sentiero, all’imbocco della stradina sterrata si trova una piccola fontana, assaggio della suddetta fonte, la quale è invece avvolta dalla vegetazione e va raggiunta con almeno 40 minuti di cammino. Una fonte incontaminata, che anima i muschi del sottobosco diramandosi in piccoli ruscelli. Uno di questi, presentava delle tracce di una strana schiuma bianca. Sembrava, a vedersi, residuo di sapone.
Chi mai potrebbe immaginare di venirsi a lavare in un luogo come questo?
Quello che quel giorno sembrava srotolarsi di fronte a noi, sarebbe potuto passare allo sguardo di chiunque come un semplicissimo sentiero sterrato, lungo il quale poter godere di un po’ di quiete e ristoro. Eppure, muovendosi in esso con uno sguardo aperto abbastanza da cogliere la misura del particolare, è stato possibile captare piccoli indizi che sembravano far parte di storie ben diverse.
Anche il suolo bagnato, fangoso, la nebbia fitta, l’umidità fredda e penetrante, trasportavano l’animo in tutt’altre atmosfere. Quel luogo, tanto affascinante quanto lugubre è, al di là delle apparenze, un tratto della cosiddetta “Rotta Balcanica”, il percorso compiuto da migranti provenienti dal Medio Oriente e dall’Asia (Afghanistan, Pakistan, Iran, Siria), determinati a raggiungere la Croazia o la Slovenia passando per Turchia, Grecia, Macedonia del Nord, Serbia, Bulgaria e Bosnia. Per le vie della nostra città, si aggirano silenziose presenze, che tutto questo lo hanno vissuto sulla loro pelle. Ci sono sguardi, corpi, di madri, figli, uomini, segnati da giorni interi di cammino, senza cibo, senza acqua pulita, senza riposo o quiete, che giungono ogni giorno nei territori che abitiamo. Ci sono storie colme di sofferenza, di ingiustizia, discriminazione e disumanizzazione, consumate proprio lungo il perimetro della nostra città, e la maggior parte di noi non ne sa nulla. Tutto ciò non ci tocca e, più o meno consapevolmente, noi scegliamo di non avvicinarci.
Non so, e lo scrivo con il cuore in mano, quale sia la soluzione a tutto questo. Non ho alcuna verità da recapitare. Se non una cosa della quale - lo sento - sono indubbiamente certa. Di tutto questo, vanno raccolte le tracce. Tutto questo va visto, va riconosciuto, va raccontato, va reso parte di noi e del nostro cammino quotidiano. Non si tratta di oggetti abbandonati casualmente lungo il sentiero, o vestiti dimenticati sbadatamente da qualcuno. Si tratta di pezzi di Vite umane, sradicate dalle loro terre, che viaggiano errabonde e stanche, nella speranza di trovare nuovi luoghi da poter chiamare “casa”. Si tratta, di guardare ciò che ci circonda - e viverlo, dunque - per ciò che è veramente.
Carola Buosi
Foto di Angela Tozzi , ig @angelatozziphotos