Esiste un teatro per ragazzi?

Una riflessione critica su cosa ci aspettiamo dal teatro, cosa vogliamo dal teatro e cosa questo ci offre in cambio delle nostre aspettative. Un articolo che vuole essere una riflessione collettiva e diffusa, che parte da una domanda e cerca di rispondersi mantenendo un punto di vista aperto e cangiante, un cantiere di ipotesi in costruzione. Dovrebbe esistere un teatro per ragazzi o dovremmo essere tutti un po’ ragazzi per andare a teatro?

Illustrazione di Mattia Labadessa (https://www.instagram.com/_labadessa/)

Nota di regia: questo articolo è rimasto fermo a fermentare per un po’ di tempo, è nato come un esercizio e forse vuole rimanere tale, sia per chi lo ha scritto sia per chi lo leggerà. Vuole soprattutto essere un bacino di temi che sperano di trovare terreno fertile in successivi articoli di approfondimento.  

A presto, buona lettura. 

Sono le 10.30 di mattina di un venerdì di inizio ottobre. L’aria fuori è fresca, non si sa se per l’arrivo della stagione autunnale o per l’imminenza del fine settimana. È, per la precisione, venerdì 13 ottobre, che di per sé non ha molto di diverso rispetto ad ogni altro venerdì, ma acquista una sfumatura di significato diversa se accostato al lunedì d’inizio settimana, del 9 ottobre

Il 9 ottobre è uno di quei giorni che m’immagino segnato in rosso sui calendari delle persone che, per un motivo o per un altro, alle ricorrenze devono portare particolare attenzione: io, sul mio calendario, segno in rosso i giorni dei compleanni dei miei amici, ché sono pessima e ché sennò li dimentico, ma m’immagino che i giornalisti, i politici, i professori, oltre che ai compleanni, si segnino in rosso anche tutte le ricorrenze degne d’essere ricordate. Comunque, qualche lunedì fa era il 9 ottobre, e sui calendari di chi le ricorrenze se le ricorda e lavora per farle ricordare compariva la scritta: il disastro del Vajont. Quest’anno, a ricordarmi del Vajont, è stato il teatro per cui lavoro: il Politeama Rossetti, che da una settimana circa, oltre alla proiezione del docufilm del ‘97 di Marco Paolini, ospita uno spettacolo del regista e attore Andrea Ortis, Il Vajont di tutti, ora in tournée. 

Venerdì 14 ottobre, alle 10.30, ho avuto la possibilità di assistere allo scenario quasi utopico del Politeama Rossetti- storico teatro aperto nel 1878 con cinquemila posti (poi ridotti a millecinquecento) e quindicimila metri cubi di superficie- pieno zeppo di spettatori, per il Vajont. Il teatro si è riempito di studenti e studentesse provenienti da ogni scuola del territorio triestino, a partire dal primo anno delle scuole medie per terminare con l’ultimo anno delle scuole superiori, dai professionali ai licei. Eccoli lì, perfettamente allineati, nella scompostezza di una folla di 1500 teste, qualcuna più alta, qualcuna più bassa, un tanfo di ormoni e di sudore da far accapponare la pelle, suoni di plastica di merendine che si aprono, risatine, qualche foto al teatro, qualche verso di eccitazione di chi per un venerdì non si trova nella propria noiosa struttura scolastica ma dentro un teatro, popolato non da noiosi vecchini che si compiacciono nel passare il venerdì sera ad ascoltare la lirica, ma di studenti, la propria gente.  
 

Il disastro del Vajont è il lasciapassare per uscire dalle aule e passare una mattina a teatro, ma è, forse proprio per questo, anche l’ultimo dei loro interessi: si tratta di uno spettacolo ed un evento storicamente troppo recente perché i loro professori siano riusciti a fornire ai loro studenti un inquadramento generale, letterario, filosofico, figuriamoci politico, di cosa fossero quegli anni, gli anni 60. L’altro grande problema è proprio il luogo: il teatro diventa tale ma non per lo spettacolo, quanto per il modo in cui tutti questi ragazzi si ritrovano a starci, senza sapere come si fa: partono scrosci di applausi totalmente insensati ed indesiderati, ogni tanto qualcuno si alza per andare in bagno e tornare dopo venti minuti, c’è chi mangia le proprie merendine plastificate e chi fa commentini sottovoce. Lo spettacolo durerebbe due ore e quaranta minuti, ma per le classi è stato ridotto a un’ora e trenta circa. Chissà quale versione avrebbero preferito davvero, e soprattutto chissà perché agli adulti non sia stata proposta la possibilità di una versione più breve, ma, quello su cui mi sono trovata a riflettere in fondo è: davvero questo è il teatro che serve ai ragazzi?  

Da persona che ha scoperto il teatro, soprattutto un certo tipo di teatro molto sociale, molto politico, proprio durante gli anni del liceo, è questo un tema che mi tocca nell’orgoglio: penso innanzitutto che sia buona cosa lasciare il percorso accademico-istruttivo (di opinabil istanza) di cui l’educazione scolastica si fa fautrice scollato dal tipo di istruzione che il teatro può offrire tramite gli spettacoli che ospita. Il Vajont di tutti mi è parso, con tutte le buone intenzioni, come un tentativo fallito da parte delle istituzioni di istruire i ragazzi con metodi alternativi, quando forse prima di tutto sono i professori a dover essere re-istruiti da questo punto di vista (quello dell’andare a teatro).  

Passando ad un approccio di più ampio respiro, penso che, di base, alle radici, il teatro nasca dal bisogno di dire qualcosa, veicolare informazioni, mandare un messaggio. Dal tronco in su, però, c’è chi il teatro lo fa per diletto, chi per curiosità, chi per critica, e poi esistono vari tipi di teatri: stabili, non stabili, instabili (ossia indipendenti) che offrono spettacoli diversi, e non esiste forma migliore o peggiore, ma il messaggio che viene veicolato, dalle radici fin quando si arriva ai rami, più in alto, è ben diverso. Se però non esiste teatro stabile o instabile migliore o peggiore, esiste la possibilità di discernere, di sapersi orientare nel campo delle programmazioni, che non è poi tanto diverso da scegliere di praticare danza piuttosto che calcio, ossia: fare una scelta in base a ciò che si addice di più alle proprie esigenze.  

Far approcciare gli studenti e studentesse a un teatro altisonante e bellissimo, senza fornirgli una formazione sulla storia dei teatri della città in cui vivono, una spiegazione sulle tipologie di spettacoli che ogni teatro tende a mettere in  scena, non farà altro che costruire una sua immagine distorta e distante della rappresentazione teatrale dalla vita di tutti i giorni, dai problemi e dalle domande che ci facciamo, troppo in alto per poter essere raggiunta o semplicemente apprezzata da qualcuno che non ha gli strumenti adatti. E quindi diventa noioso. Vedendo quei millecinquecento ragazzi acquattati comodi sulle poltroncine del Rossetti mi sono commossa, ma mi sono anche chiesta quando sarebbe ricapitato, se quei ragazzi li avrei più rivisti, magari al bar, magari il venerdì sera in via Torino, o forse in libreria. Sicuramente non tutti insieme, sicuramente non a teatro. 

 

Con degli amici, con dei colleghi, ho provato a riflettere sul significato di portare i giovani a teatro, se effettivamente vi siano delle differenze.

Matilde, che insegna teatro ai bambini, che va a teatro e ne scrive del suo, e che ogni tanto si ritaglia del tempo per farlo, mi spiega che se su un palco siamo abituati a vedere attori che, costretti ad impersonificare personaggi diversi da loro, si vedono re-inventarsi, scoprirsi conoscendosi, ponendosi in un’ottica di continua ricerca, fuori da quei palchi, tale pratica è cosa naturalissima a chi, durante l’adolescenza, per la prima volta si trova a fare i conti con la società che li circonda, si chiede come apparire, come ricordarsi o come pensarsi, cambiando ogni giorno una piccola parte di sé. "Qual è la versione migliore di me stesso dentro questa scena?” non si discosta poi di troppo da un'intima ricerca di convivialità con la propria personalità. Il teatro, quindi, come luogo dove poter trovare delle risposte, e non come di fronte a un oracolo, più come di fronte ad uno specchio che ci permette di studiarci, di conoscerci, di capire dove stiamo andando.  

Filippo, invece, educatore fuori e dentro le scuole, mi parla del teatro prima come pretestuoso strumento, ossia cercare il teatro come cercare la catarsi, senza però considerare ciò che sta in mezzo. È proprio in quel travaglio che sta, in realtà, lo spettacolo, il teatro, la sua funzione: un compagno di viaggio che può al massimo aiutare a comprenderne il meccanismo, a sentirsi meno soli, che è un importante messaggio sia per gli studenti, sia per i loro predecessori. 

 

Il teatro, uno strumento fortissimo, molte volte scontato e banalizzato, messo in secondo piano, relegato a insegnamento teorico, a isterilimento della sua valenza politica, poetica, istruttiva, anche a causa dell’uso che ne viene fatto dagli istituti come mero oggetto propedeutico all’insegnamento, a causa dell’approccio distante che parte dai professori e dilaga come una febbre, come l’ilarità di Brusco Barbagli (grazie Corrado Guzzanti per Fascisti su Marte), per sempre destinato a rimanere un binomio ozioso e scontato, che lo trascinerà alla morte cerebrale. 

Mi sembra un po’ che il problema con la concezione del teatro sia lo stesso delle ricorrenze: il motivo per il quale sono reticente nel celebrare ogni anno le ricorrenze, i decennali, i centenari, è che ci accontentiamo di un giorno: ci bastano poche ore per dare credito ad un avvenimento per cui ci sentiamo moralmente in debito, per poi accontentarci, e facendo ciò tale avvenimento finisce per cadere nuovamente nell’oblio, nella cassettiera dei cassetti chiusi, in attesa di aprirne uno nuovo. Allo stesso modo delle ricorrenze che celebriamo, però, il teatro rimane qualcosa di vivo, in costante cambiamento, che dipende molto anche dalle influenze che da fuori lo stimolano, sennò sarà per sempre condannato a rimanere un monolite in marmo, freddo e distaccato, a rimanere dentro l’immagine della struttura che lo ospita, a rimanere luogo di aggregazione di vecchi noiosi che si aspettano di trovarvi la lirica, ed il teatro per ragazzi rimarrà il titolo ozioso e distante che parla ad una generalizzazione di studenti che guardano al teatro come guarderebbero un quadro in un museo o una pagina del manuale di storia.  

Chiediamoci quali sono le nostre paure, i nostri rimpianti, i nostri desideri, ciò che ci fa ridere, ciò che vorremmo ci facesse ridere. Stiamo già facendo un esercizio di teatro, pur rimanendo comodamente seduti a leggere la fine di questo articolo.  

Chiediamoci che cosa ci aspettiamo quando andiamo a teatro, che cosa ci aspettavamo, se ci avrebbe fatto piacere qualcuno a dirci cosa vedere, come stare, quando andare a teatro. 

Un po’ di tempo fa un attore esordiente, chiacchierando, mi chiese di pensare a che cosa, da spettatrice, mancasse oggi al teatro. Ed io sono stata giorni interi a pensarci: i soldi, avrei potuto rispondere cinicamente, la filosofia, per fare l’intellettuale di sinistra, e invece mi son venuti in mente i giovani, e non me li son più tolti dalla testa. Ma quindi noi cresciamo, scriveva uno, “ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia”, che poi è la stessa che in greco solo che in quello antico si chiama thauma ed è stata in un certo senso il principio della ricerca filosofica. Questo per dire che spesso, alla fine, tutti i piani si compenetrano, si fondono per generare risultati differenti, a partire da una necessità comune, e che forse, a teatro, certe categorizzazioni diventano più una forma, fittizio interesse organizzativo, e che forse, forse, andando contro ogni pronostico, il teatro, tutto, dovrebbe essere per ragazzi, che siamo tutti.  

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