Rivoluzione e inazione 

Come il rivoluzionario spende le sue emozioni

Max Adamo, The Fall of Robespierre in the Convention on 27 July 1794, 1870, Alte Nationalgalerie.

“Come farò a uscire da questo labirinto?” 

                                                                                                       - Ultime parole di Simón Bolívar 

 

Il Simón Bolívar dei libri di storia è il Libertador, è l’hombre de America. É un uomo che a un certo punto della sua vita ebbe mezzo continente ai suoi piedi. Fondatore della Bolivia, conquistatore dell'indipendenza di Colombia, Perù, Ecuador, Panama e Venezuela, presidente di molte delle neonate repubbliche indipendenti del Sudamerica, grande generale, uomo incorruttibile che giurò di non sposarsi più dopo la morte della moglie. Il Simón Bolívar dei ritratti a olio è un uomo elegante e gagliardo, con lunghe basette e uno sguardo fiero sempre rivolto lontano, come se dovesse indirizzare la sua grandezza verso l’orizzonte, verso la possibilità stessa della conquista. 

Ne Il generale nel suo labirinto, il Simón Bolívar di Gabriel García Márquez è un uomo con la giubba sporca e le maniche scucite, ogni traccia di eroismo evaporata dal fuoco delle sue continue febbri. Sguazzando nel fango, smunto e malaticcio, incontra pezzenti che non sanno che il loro paese sia stato “liberato”, né chi sia stato a liberarlo, né che a un certo punto fosse stato soggiogato da qualcuno. Si muove piano piano da un’amante all’altra dovendo soppesare lentamente ogni passo per non cadere, col suo codazzo di generali, soldati e collaboratori che lo segue timidamente. Da anni si dice che stia morendo, da sempre conserva integre le sue velleità di comando e l’illusione della sua rilevanza. É un uomo che minaccia continuamente il governo di andarsene; lo promette a sé stesso e al suo seguito, ma in realtà è penosamente e quasi fisiologicamente incapace di abbandonare il potere: non può o non vuole farlo, e quando dice di voler intraprendere il suo ultimo viaggio verso l’Europa il passaporto sembra non arrivare mai. É un uomo costretto all’immobilità, condannato a soggiornare nel limbo dell’indecisione. Questa sua condanna è, come vedremo, autoinflitta. Possiamo arrivare alle ragioni della sua inazione?  

 

É chiaro come gli intimi tormenti di Simón Bolívar (in quanto persona) non possano essere esplorati sfogliando degli incartamenti in archivio. Leggere le sue lettere è certamente un passo nella giusta direzione, ma è superfluo ricordare come dalla mente alla carta moltissime cose vengano irrimediabilmente perdute, consegnate a quell’etere inaccessibile che sta tra il pensiero e l’espressione. Non stiamo dicendo nulla di nuovo: sappiamo che è difficile, se non impossibile, sondare la mente di un uomo vissuto due secoli fa (grande che fosse), e che il Simón Bolívar per così dire autentico e non filtrato ci sarà sempre precluso. Sappiamo anche che i manuali di storia non parlano nemmeno, in realtà, di Simón Bolívar, ma solo del Libertador, del generalissimo, dell’uomo dell’America.  

La modalità tradizionale di apprendimento della storia ce la trasmette come una successione di guerre e trattati di pace; solo raramente troviamo l’emozione come un oggetto che lo storico può esplorare, e ancora meno spesso come lente d’ingrandimento che ci permette di arrivare a verità storiche. Insomma, nel raccontare la storia si sceglie tradizionalmente di trascurare le risposte emotive, temendo di sprofondare in un gorgo di suggestioni vaghe e imperscrutabili. Nel raccontare una vita, invece, e magari non in un manuale, ma in un romanzo quale Il generale nel suo labirinto, sprofondare nella dimensione emotiva è esattamente il traguardo che vogliamo raggiungere. Sempre consapevoli dei limiti del mezzo che abbiamo tra le mani (perché sondare la mente di un uomo morto resta impossibile) partecipiamo dei rivolgimenti dell’animo di una persona. Ci allontaniamo dai libri di storia, ci immergiamo nell’individuo, e attraverso l’individuo facciamo il giro e torniamo nella storia stessa, ma addirittura più in profondità rispetto a dove siamo partiti. 

 Nessuno, credo, può negare l’importanza delle emozioni nel dirigere le azioni dei grandi e piccoli attori del passato. I campi di battaglia, le strade piovose nella notte, le camere dei bordelli, l’attimo in cui si risolve una decisione… questi luoghi sono la materia della storia, e forse lo sono più di quello che si decide al tavolo dei negoziati. In questi luoghi non agisce il calcolo freddo e ragionato, ma appunto l’eruzione delle emozioni. Allora capiamo come il recupero di questo carattere emotivo ci permetta di spiare la storia da dentro: nel nostro caso specifico gli ultimi anni di un “grande” uomo, anni che nei manuali sono condensati in poche, sterili righe, mentre nel romanzo di Márquez riempiono trecento floride pagine. 

Fa anche piacere scoprire come queste riflessioni non siano solo appannaggio dei romanzieri. Recentemente molti studiosi, allontanandosi dalla familiare tendenza a raccontare la storia come successione di scelte politiche, hanno tentato di tematizzare esplicitamente l’emozione nel contesto del procedimento storico, recuperandone cioè la dimensione timotica (da thymos, “emozione, desiderio, impulso interno, movimento, agitazione” o anche “autoaffermazione”). Tra la miriade di esempi possibili ricordiamo il lavoro di Peter Sloterdijk e di Georges Bataille: secondo quest’ultimi, la passione non è una delle forze, ma la forza per eccellenza, che orienta non solo l’individuo ma l’intera cosa pubblica. Lo psichico è trattato alla stregua di una merce di scambio: è suscettibile di trattazione economica (accumulazione e differimento), proprio come il capitale monetario, e la politica diventa il luogo della strutturazione e della codificazione dei rapporti emotivi. La condizione sine qua non per la costruzione e per il mantenimento del potere temporale, in qualunque forma esso si manifesti, è quindi l’imbrigliamento delle spinte passionali dei cittadini-sudditi. Le loro energie psichiche devono essere in qualche modo controllate e piegate entro un ordine, entro una struttura creata dal potere che pure trova la sua possibilità e fondamento nell’esistenza della struttura stessa. Questa costrizione è permessa, secondo Sloterdijk, dalle “banche d’ira”.  

Queste “banche” sono impianti di accumulazione e differimento dell’ira, e possono essere religiose (cristianesimo) o politiche (comunismo, fascismo). Nel cristianesimo, tutti gli impulsi di odio e risentimento sono differiti al giorno del giudizio: gli ultimi saranno i primi e i peccatori soffriranno per l’eternità. Nel comunismo, ai proletari industriali è promessa egualità, redistribuzione dei beni, emancipazione e abolizione della proprietà privata. Anche il fascismo è classificabile come immagazzinamento programmatico dell’ira, che viene poi scatenata in modo controllato contro un nemico preciso (non più di classe, ma etnicamente differente, o appartenente a un’altra nazione). Grazie a questi rinvii, a queste delazioni della volontà distruttiva e temperamentale del popolo volto al cambiamento, le masse vengono inesorabilmente prosciugate della loro combattività, e possono essere soggiogate e controllate dai sistemi di regolamentazione statale. 

Se il funzionamento delle “banche d’ira” viene meno, allora arriva la rivoluzione, la resistenza armata, il dissidio politico, il movimento violento del popolo: l’ira, libera dal suo giogo, finisce per scatenarsi. Paradossalmente, però, è proprio lo stadio rivoluzionario, il divampare della forza irosa delle masse, a produrre nuove “banche” quando l’ira viene completamente (ma spesse volte solo temporaneamente) spenta. Con il proseguire della lotta il furore si stempera e viene consumato con la guerriglia, come il sangue e le munizioni. Lentamente il panorama emotivo del rivoluzionario cambia, la sfinitezza e il rimpianto sostituiscono l’estasi della perdizione nella battaglia. Quando un risultato politico si fa tangibile e continua ad avvicinarsi, si comincia inevitabilmente a riflettere sulle modalità di conservazione di questo risultato, secondo il vecchio adagio per cui tutte le rivoluzioni finiscono cosicché si possa tornare ad aver paura della prossima. Nell’altalena storica che sale e scende continuamente tra governi rivoluzionari e governi conservatori, sembra che sia il popolo stesso a cercare il suo imbrigliamento e a condannarsi all’inazione. Allo stesso modo, il Bolívar morente descritto da Márquez è da ritenersi la causa del suo stesso male. 

 

Qual è infatti la personalissima “banca d’ira” di Bolívar? Una particolarità di figure grandiose e influenti come la sua è che esse contribuiscono enormemente alla creazione di queste banche. Bolívar non è stanco di fare la guerra, e se non fosse per le sue debilitanti malattie (che peraltro lo accompagnarono anche nei suoi anni “migliori”) sarebbe probabilmente rimasto sul campo di battaglia fino al suo ultimo giorno. Il problema è che Bolívar ha finito gli avversari: ha conquistato il conquistabile, ha liberato tutto ciò che si poteva liberare. Egli ha, da solo, consumato tutto il patrimonio d’ira del suo popolo, ha creato gli stessi governi che adesso lo vedono come un personaggio dubbio, da tenere sotto controllo. La banca d’ira di Simón Bolívar è la sua stessa creazione: il sogno (o lo spettro) di un Sudamerica unito. A rivoluzione compiuta, le uniche emozioni che si leggono sul volto scheletrico del Generale di Márquez sono la stanchezza, la noia, una vergogna mal dissimulata. Egli riposa in una quiete assoluta e dolorosissima. Rivoluzionario tra i più brillanti, ha fatto sprofondare nell’imbarazzo sé stesso e i suoi più illustri commilitoni: i loro pensieri sono volti altrove, sono costretti in posizioni di potere scomode che non sembrano appartenere loro. Tutte le loro energie, spese; tutta la loro ira, consumata. Márquez esprime bene l’inerzia di chi ha esaurito il suo compito: ovunque attorno al Generale regna lo spaesamento dei guerrieri che non hanno più una guerra da combattere, il silenzioso sbigottimento che lo stato insinua nella classe rivoluzionaria ormai priva di direzione. Uno sbigottimento, una stanchezza che è puramente personale e apolitica, e che quindi un manuale di storia non riesce a captare. Una stanchezza a cui invece i romanzieri sono molto sensibili, e che pensatori come Sloterdijk (controversi, meno tradizionali) riescono bene a suggerire. 

 

Tra i soldati di Simón Bolívar un ufficiale prende la parola: “Abbiamo l’indipendenza, bene. Adesso qualcuno ci spieghi cosa dobbiamo farcene”.  

 

 

Bibliografia 

  1. Gabriel García Márquez, Il generale nel suo labirinto, Mondadori, Milano, 1989 

  2. Peter Sloterdijk, Ira e tempo, Marsilio Editori, Venezia, 2019 

  3. Antonio Lucci, Economia e politica delle passioni in Peter Sloterdijk in “Esercizi Filosofici”, vol. 4, n. 2, luglio-dicembre 2009, pp. 172-185 

  4. Silvia Rodeschini, Tymos e natura umana. Recensione di Peter Sloterdijk, Ira e tempo. in “Governare la paura. Journal of interdisciplinary studies”, vol. 1, n. 2, 2008

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